Elemento cardine nella pittura di Donato Carlà è la questione della realtà e della sua rappresentazione, a cui l’artefice, grazie alla sua abilità tecnica e al suo immaginario, cerca di porre rimedio costruendo strumenti. Questi sono le entità raffigurate, le quali costituiscono esse stesse illusioni, poiché, come in Schopenauer, alla conoscenza della realtà effettiva l’essere umano non sarà mai in grado di arrivare.
Prendendo le mosse da archetipi, l’arte di Donato Carlà giunge ad una sintesi che coniuga fascinazione estetica e nitore geometrico, il tutto mediato dalla luce, componente fondamentale la quale si collega alle origini salentine dell’artista. Dai primi esempi di pittura realista, degli anni ’70 e ’80, l’autore conduce un’analisi del reale che semplifica, eludendo qualsiasi riferimento spazio-temporale, e qualsivoglia appiglio all’identità, per divenire oggettiva manifestazione di denotazioni visive che costituiscono agganci al mondo umano, che coniugano passato e presente, contingenza e trascendenza.
La luce delle origini, calda e mediterranea, diviene tersa, cristallina, algida e uniforme, fatta eccezione per le ombre definite degli oggetti raffigurati: è la tipica luminosità metafisica, che prepara ed anticipa la “rivelazione”. Dalla stagione figurativa degli esordi si giunge a quella che richiama molto da vicino gli “interni metafisici” del 1916 – 17, negli anni ferraresi della produzione di De Chirico, riprendendo quindi del Maestro la fase più intimista e introspettiva, com’è proprio anche alle opere di Donato Carlà. Lo sguardo, infatti, si sposta dall’esterno all’interno, in una necessaria operazione di autoriflessione: la realtà ultima delle cose essendo inconoscibile, e quindi irrappresentabile, ciò che l’artista opera sul supporto è essenzialmente un prodotto della sua immaginazione, di un’intuizione, un retaggio della coscienza collettiva, o, ad un livello più spirituale, appunto, di una “rivelazione”.
Ciò pone in primo piano il problema della cognizione tramite la visione, dato che la percezione altro non è, come scritto sopra, che un’esperienza interiore, l’agnizione che il soggetto fa di se stesso e il rispecchiamento di sé. Nelle opere degli anni ’80 ciò che colpisce è l’uniformità dei bianchi, degli ocra, delle terre e dei grigi nelle campiture piatte, che schematizzano geometricamente i luoghi e le architetture, vissuti e amati, fra cielo, terra e mare: le case, le imbarcazioni, le componenti del paesaggio e i personaggi stessi, perdono di connotazione identificativa per divenire emblemi di un vissuto antico, come in: “Ritorno dai campi” (1980), “Al sole di primavera” (1981), “Corte con pila” (1982). Dal disegno all’incisione, alla pittura, ai cartoncini, l’artista compie negli anni un processo di semplificazione che lo porta ad estrapolare la parte dal tutto, a concentrarsi sul dettaglio. Realizzando così un lavoro di fino, che potrebbe essere visto da una certa prospettiva come esercizio di stile, ma che in effetti focalizza l’attenzione sul particolare proprio per sottolineare ed evidenziare l’impossibilità della vera conoscenza delle cose e rilevarne l’aspetto ironico. Cominciano ad apparire gli elementi stranianti che mettono in discussione il circostante, e insinuano la necessità del dubbio, come in “…del vedere oltre”, “Controluce e trasparenze”, “Illusione e realtà”, “Specularità”.
La bellezza ci si palesa attraverso la luce, e l’atto del vedere è quello che maggiormente ci avvicina alle cose, pertanto può essere inteso come percezione di principale importanza, rispetto alle altre proprie alla natura umana. Le opere della recente produzione, dalla fine degli anni ’80 a oggi, mostrano le influenze e gli spunti derivati dagli anni della formazione presso l’Accademia di Brera a Milano, e testimoniano della maturazione della sua arte: le figure risultano decurtate in busti classici, tronchi privi di membra, o sagome stilizzate, a significare la posizione parziale e la sostanziale impotenza dell’uomo in rapporto a ciò che lo circonda; i segnali di limitazione stradale, i coni edili, i pali a strisce che circoscrivono gli spazi, paiono porre in evidenza l’esperito, a puntualizzarne l’avvicinabilità solo apparente, forse parziale, l’effettiva irragiungibilità; gli strumenti di misurazione del tempo: metronomi, ingranaggi, clessidre, orologi solari assimilati a cerchi cromatici, sono altresì svuotati di senso, per “appiattire” l’esperienza in un eterno presente, in cui passato e futuro si fondono, nella labilità delle convenzioni; geometrie solide e piane inducono in tentazione riportando la mente al Cubismo e alle precedenti teorizzazioni di Matisse: laddove ogni cosa è spogliata dalle caratteristiche circostanziali, si torna alle forme di base; simmetria, specularità e precisione scientifica simboleggiano il tentativo che l’uomo compie quotidianamente per trovare il proprio posto nel mondo. Tutto è enigma, alla cui radice è impossibile a noi arrivare, e di qui la quiete immobile e atemporale in cui unico mezzo rivelatore è per l’uomo la luce, la quale è d’ausilio all’artista, la cui facoltà creativa gli conferisce una qualità visionaria che potrebbe in qualche modo avvicinarlo alla Verità, ma di quanto non ci è dato sapere.
E’ in questo contesto di riflessione, che le fisionomie degli ulivi assumono una significanza simbolica e archetipica per antonomasia: plasmati dalla natura e dal tempo, essi acquistano una fisionomia pressoché antropomorfa, situandosi, grazie alla loro longevità, al di fuori delle epoche, e divenendo paradigmi della vita stessa, oltre gli sterili vaneggiamenti autoreferenziali della ragione.
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